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Tortona – La fantasia della carità: in missione con la mascherina e la croce

Tortona – La fantasia della carità: in missione con la mascherina e la croce

Carissimi amici, da alcune settimane siamo in casa obbedendo alle indicazioni che ci sono state date per arginare il contagio del coronavirus. Purtroppo nonostante le attenzioni avute fin ora, in alcune nostre Case la situazione è preoccupante. Ma insieme a queste notizie, ve ne sono anche alcune di confortanti: si prega di più, si dialoga con maggior tempo in comunità e si riscoprono le piccole attenzioni che danno il sapore alle nostre relazioni. Tra le belle notizie anche quella di Don Pietro Sacchi e del suo coraggioso apostolato all’ospedale di Tortona, in accordo con il vescovo e le autorità sanitarie. Come avrebbe voluto Don Orione, Don Pietro è in frontiera e ci rappresenta.

Don Aurelio Fusi

 

Don Pietro Sacchi ha 45 anni, da quasi 8 anni è sacerdote e da diversi anni opera a Tortona con gli studenti della Scuola Superiore e nelle “periferie dell’anima”, il campo nomadi, il carcere di Voghera e di Alessandria.

Molto conosciuto in città, ha spesso promosso iniziative di carità a favore degli ultimi: il regalo di Natale per i bambini dei carcerati, affinché il genitore possa accogliere il figlio con un dono, la cancelleria per i bambini del campo nomadi, per sostenere il loro percorso scolastico.

Dall’inizio di Marzo ha dato il via ad una nuova iniziativa, perché – come diceva nell’audio di Whatsapp inviato ai suoi contatti- “ci sono piccoli drammi nel dramma della malattia: questa reclusione che per noi è motivo di sicurezza e protezione, per i malati è anche motivo di isolamento. I malati che da venti giorni sono ricoverati in totale isolamento non possono comunicare con i propri cari“. Così ha iniziato a raccogliere tablet o smartphone per poter effettuare videochiamate.

Da questa “pazza idea”, come l’ha chiamata Don Pietro, è nata la sua missione all’interno dell’Ospedale di Tortona, primo COVID Hospitale della Regione Piemonte.

A vederlo girare nei reparti, a prima vista sembra un operatore come gli altri, tutto bardato come richiesto dalle norme. A guardar bene, però, c’è un segno inconfondibile che distingue la sua missione da quella degli altri operatori: la croce.

Don Pietro ha raccontato come è andato il primo giorno di questa nuova esperienza:

Ho fatto il primo giro nei reparti. Sono subito partito dalla rianimazione, dopo è stato il turno della Medicina e della Chirurgia, che in realtà ormai ospitano anch’esse pazienti Covid. La vera differenza si nota nelle 12 stanze dedicate alla rianimazione, con gli intubati: lì posso solo benedire. Nelle altre stanze mi reco con il formulario delle confessioni: uso la 3° formula, il 3° capitolo è quello che prevede Papa Francesco per le confessioni comunitarie.

Il primo giorno a pranzo sono stato con i medici e gli infermieri, perché in questo contesto siamo a tutti gli effetti una famiglia e stando insieme ci carichiamo a vicenda. Loro mi hanno istruito, mi hanno fatto un corso su come vestirmi e svestirmi. Mi hanno spiegato che la cosa più importante e delicata è la svestizione, perché bisogna stare attenti a come si va fuori.  Qui indossiamo una tuta che ha un doppio strato, un doppio calzare, degli occhiali di plastica, una cuffia verde e un cappuccio sopra la cuffia. Io ho indosso anche una bellissima croce di legno che era una copia della croce di Tonino Bello, che mi diedero dopo una missione a Carapelle, ed è l’unico elemento che mi contraddistingue, per capire che non sono un sanitario ma sono un sacerdote.

Dopo il pranzo faccio l’esposizione del Santissimo. La cappella è prevalentemente vuota, ma ogni tanto qualche medico, qualche infermiere, qualche malato si affaccia alla balconata della cappella che è su due piani.

Poi alle 15 celebro la Messa, e due o tre persone partecipano sempre. Teniamo in questo modo viva la liturgia, alla fine dell’adorazione eucaristica benedico tutto l’ospedale. La gente mi incontra con grande gioia, i medici sono contenti, si fermano a parlare, e anche chi non chiede il sacramento, non chiede la confessione, vuole fare una chiacchierata e questo fa molto piacere anche a me. Io non ho contatti fisici, sto molto in sicurezza, seguo le istruzioni che mi hanno dato e anche quando uso il tablet ho a disposizione tutti i mezzi per non far entrare in contatto le mani. Nonostante tutto, è una bella esperienza, pregate per me perché ne ho bisogno. Io, non ometto di pregare per voi.

Padre Tarcisio Vieira, Direttore Generale, ha voluto commentare questa iniziativa: Il 10 marzo ho scritto alla Famiglia: “Facciamo rivivere in noi quello spirito di Don Orione pronto ad accorrere per portare soccorso a chi era colpito da grandi calamità, quella sua disponibilità per imprese grandiose. Ricordiamo che, durante la Prima guerra mondiale, forse in occasione del terribile flagello dell’influenza chiamata ‘spagnola’, essendo venuto a mancare il cappellano di un ospedale per l’isolamento degli ammalati (lazzaretto), Don Orione scrisse al responsabile di quell’ospedale: “Prego Vostra Signoria un favore: permettermi di assumere la cura spirituale del Lazzaretto (…). Occorrendo, io passerò là la notte e il giorno” (Scritti 68, 36). Forse non ci sarà permesso un tale sacrificio e generosità. Ma, “Sentiamo il grido angoscioso di tanti nostri fratelli che soffrono, sentiamo il grido delle anime che anelano a Cristo. E che la carità, o fratelli, ci edifichi e unifichi in Cristo, quella carità che non s’arresta, che non vede barriere, che è onnipossente e trionfatrice di tutte le cose”. A te, caro Don Pietro, è stato permesso un tale sacrificio… Grazie a nome di tutta la Famiglia Orionina!”.

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