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Giornata della Memoria – Il dovere di ricordare

Giornata della Memoria – Il dovere di ricordare

Come ogni anno a partire dal 2005, il 27 gennaio si celebra in tutto il mondo il Giorno della Memoria, per ricordare pubblicamente l’inenarrabile orrore dei campi di concentramento nazisti, svelati al mondo quando, proprio il 27 gennaio del 1945, le truppe sovietiche liberarono il campo di Auschwitz. In Italia la ricorrenza si celebra fin dal 2000 quando la giornata fu istituita dalla legge n. 211/2000. Per il resto del mondo, la commemorazione si svolge a partire dal 2005 – 60° anniversario della liberazione – in seguito alla proclamazione, da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, della Giornata Internazionale della Commemorazione in memoria delle vittime dell’olocausto.

Con tale risoluzione l’ONU vuole contrastare qualsiasi tentativo di negazione dell’Olocausto come evento storico, chiedendo che i luoghi in cui furono insediati i campi di concentramento, di lavoro e di sterminio siano preservati come monito alle generazioni future. È essenziale, infatti, mantenere vivo il ricordo di un momento storico in cui l’umanità perse sé stessa subendo una regressione così forte da non poter essere di nuovo tollerata. Eppure, mentre lo diciamo, allo stesso tempo, pressante è la sensazione di essere di nuovo sull’orlo del precipizio, quando ormai da quasi un anno vediamo scorrere quotidianamente le immagini di orrori perpetrati nel cuore dell’Europa.

Le celebrazioni di quest’anno si intrecciano così agli eventi tragici della guerra in atto in Ucraina che, seppur con presupposti diversi e in un contesto altro da quello che fu la Shoah, traduce la stessa fame di conquista e il medesimo disprezzo della vita.

Liliana Segre, una delle ultime voci sopravvissute all’Olocausto, denuncia il suo pessimismo sulla memoria di quegli orrori: “Tra qualche anno ci sarà una riga sui libri di storia, e poi non ci sarà più nemmeno quella”.

Parole che debbono farci riflettere. Se le celebrazioni hanno un senso, non possono ridursi ad un doveroso stanco e retorico tributo ad una remota follia. Il ricordo di quella barbarie che fu deve rimanere al centro della nostra attenzione quotidiana e deve essere riproposto anche con nuove forme, in considerazione del fatto che i testimoni che vissero quell’orrore stanno ormai terminando il loro tempo terreno. A tale scopo rimangono i luoghi e i resti di ciò che furono i campi di concentramento, rimangono i memoriali, le lapidi di ricordo. E rimangono le testimonianze scritte che bisogna perpetuare affinché non perdano di senso. Perché relegarle nel disinteresse significherebbe esporre il futuro a nuove barbarie. L’indifferenza, avvertiva Gramsci, “è il peso morto della storia”. E allora, ricordare è, innanzitutto, una missione di civiltà.

Primo Levi, nel capitolo conclusivo de “I sommersi e i salvati” proclamò la testimonianza “come un dovere, e insieme come un rischio: il rischio di apparire anacronistici, di non essere ascoltati. Dobbiamo essere ascoltati: al di sopra delle nostre esperienze individuali siamo stati collettivamente testimoni di un evento fondamentale ed inaspettato, non previsto da nessuno. È avvenuto contro ogni previsione; è avvenuto in Europa (…) è avvenuto, quindi può accadere di nuovo, questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire”.

Oggi, le nuove generazioni hanno bisogno di essere educate a cogliere i segnali di odio fin dal loro primo apparire. Ciò è possibile attraverso un dialogo interculturale fatto di conoscenza in cui la storia torni ad essere considerata magistra vitae.

Lo dobbiamo a tutti coloro che “Morirono come bestiame, come cose che non avevano né corpo né anima e nemmeno un volto su cui la morte avrebbe potuto apporre il suo sigillo” (Hannah Arendt). Lo dobbiamo alle generazioni che verranno, affinché non abbiano a rivivere gli stessi orrori. Lo dobbiamo, perché “le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate”.

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