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Legge sul fine vita: la chiesa propone riflessione responsabile

Legge sul fine vita: la chiesa propone riflessione responsabile

Dopo un lungo iter parlamentare il 14 dicembre 2017 è stato approvato il provvedimento legislativo 219/2017 2017 Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento (DAT). La normativa, meglio nota come Legge sul Fine Vita, è il prodotto di più di 20 proposte di depositate dai due rami del Parlamento negli ultimi 5 anni, ma i cui albori risalgono al 2003, grazie al lavoro del Comitato Tecnico di bioetica.

Dell’argomento tratta Don Carlo Casalone, Collaboratore nella Sezione scientifica della Pontificia Accademia per la Vita. Nell’articolo “Abitare responsabilmente il tempo delle DAT”, Don Casalone pone l’accento sulla necessità di interpretare operativamente la norma sul piano delle procedure del sistema sanitario, cercando di evitare ogni cattiva applicazione. La riflessione mette in risalto il contesto in cui è nato il provvedimento, con la crescente esigenza da parte dell’opinione pubblica di dare spazio all’autodeterminazione del malato. Su tale aspetto la paura di “superare i limiti” è dietro l’angolo: tuttavia la legge richiama il criterio dell’appropriatezza clinica dei trattamenti, valutata dai curanti, alla luce degli standard scientifici e professionali vigenti e nel rispetto della propria coscienza.

Altra questione centrale è la nutrizione e idratazione artificiale, che la legge include tra i trattamenti sanitari che possono “sospendersi”. Il medico è tenuto a rispettare la volontà del paziente che le rifiuti, con una consapevole e informata decisione. Il rischio è quello di dare una concezione riduttiva della malattia, intesa come alterazione di una particolare funzione dell’organismo, perdendo così di vista la globalità della persona, in quanto essere corporeo, e il suo bene complessivo.

Non meno importante è il momento della stesura ed il valore delle DAT. Pur nella necessità di informare in modo adeguato il paziente, si corre però il pericolo di ridurre le dichiarazioni ad un mero atto formale. Cosa che andrà evitata favorendo uno stile che permetta la più corretta comprensione dell’informazione medico-clinica.

Don Casalone evoca poi il tema dell’obiezione di coscienza, che la legge non prevede. Ma, d’altro canto, introdurla sarebbe stato assai complesso, dato che (a differenza dell’aborto) si tratta spesso di casi non sempre determinabili. Si giunge quindi al nodo cruciale: il rapporto fra diritto ed etica, il primo rivolto al linguaggio generale di fattispecie e condotte, la seconda mirata alla coscienza. A tal proposito il CEF (Comitato per l’etica di fine vita) afferma che una legge «non potrà mai risolvere da sé sola tutti i casi con la loro singolarità. Lo Stato deve promuovere la competenza del personale medico e riporvi fiducia”.

Ultimo timore sollevato riguarda l’abbandono terapeutico, del quale però non si ha traccia nel testo di legge. Anzi, si chiede al medico di promuovere ogni azione di sostegno, anche mediante servizi di assistenza psicologica.

La soluzione migliore, sostiene il Collaboratore nella Sezione scientifica della Pontificia Accademia per la Vita, è quella di lasciar massimo spazio al dialogo in modo da giungere a posizioni condivise, così come suggerisce lo stesso Pontefice (2017) «argomenti delicati come questi vanno affrontati con pacatezza: in modo serio e riflessivo, e ben disposti a trovare soluzioni – anche normative – il più possibile condivise […] in un clima di reciproco ascolto e accoglienza».

QUI, l’articolo integrale di Carlo Casalone

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